sabato 15 gennaio 2011

Il silenzio dei vivi.

Una donna di 69 anni trovata morta in casa
Gildo Anthony Urlandini
Torano Castello 
Morire di solitudine a sessantanove anni. È successo ad una pensionata di Sartano, frazione del comune di Torano Castello. Della signora non si avevano notizie da alcuni giorni. I vicini non vedendola in giro, preoccupati, hanno bussato alla sua porta senza ricevere nessuna risposta. Lanciato l'allarme ci ha pensato poi un parente ad avvertire i carabinieri della locale stazione. Immediatamente i militari dell'Arma, comandati dal maresciallo Antonio Di Vasto, si sono recati presso la casa della pensionata. Dopo avere bussato alla porta, sono entrati dentro, rivenendo la signora a terra priva di vita. Nella concitazione dei parenti, dei vicini e dei curiosi, i carabinieri hanno avvertito le autorità giudiziarie, che hanno disposto il prelievo del cadavere e il relativo trasferimento presso l'istituto di medicina legale di Cosenza per essere sottoposto ad esame autoptico, eseguito il quale è stato celebrato il rito funebre. Il corpo è stato tumulato nel cimitero comunale.
http://www.gazzettadelsud.it/NotiziaArchivio.aspx?art=3129&Edizione=8&A=20110106


§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Capita di rimanere soli,  senza la vicinanza di parenti prossimi, perche non se ne hanno o perchè se ne sono gia andati; capita morire da soli nei sobborghi, nelle periferie degradate come nei vecchi centri storici delle grandi città. A Sartano quando si voleva augurare tutto il male possibile ad un nemico ('a gastigna) si diceva: "Vu mori cumi..............", aggiungendo nome e soprannome; una morte in solitudine  rimasta nella memoria collettiva come evento tragico ma raro. Ma l'eccezionalità consisteva nel fatto di essere stati abbandonati dai familiari nell'ora della morte,  comunque i vicini c'erano. Per quanto povero, ignorante, buono o cattivo nessuno veniva lasciato morire da solo; l'amico, il parente anche più lontano o il vicinato c'erano. 
Amaro e triste si rivela il caso di questi giorni, conoscendone la storia personale e familiare, una storia che tutto il paese conosce.Qualcosa andava fatto, si poteva fare, umanamente e socialmente;voglio sperare ed augurarmi che questa morte non sia stata vana, che  serva a prendere coscienza di una realtà ineludibile, per certi versi imbarbarita da un finto progresso, dove gli ultimi restano sempre più ultimi, anche  a Capodanno.

venerdì 14 gennaio 2011

Punto e a capo. Il danno e la beffa.

Il Tar interrompe la gara per i rifiuti urbani 


Torano castello.
Il Tar ha sospeso la gara per i servizi dei rifiuti urbani condannando il Comune di Torano Castello al pagamento delle spese. Con ordinanza n. 36/2011, depositata ieri, il Tar Calabria, Sez. II (presidente F...
http://www.gazzettadelsud.it/NotiziaArchivio.aspx?art=6989&Edizione=8&A=20110114
La sentenza:
http://www.giustizia-amministrativa.it/DocumentiGA/Catanzaro/Sezione%202/2010/201001447/Provvedimenti/201100036_05.XML


sabato 1 gennaio 2011

Italia e Calabria, crisi di identità lunga 150 anni

31/12/2010
di VITO TETI

Non c'è molto da festeggiare, nel 2011, per i centocinquanta anni dell'Unità d'Italia: c'è da pensare. Potremmo, forse, domandarci qual è l'idea che abbiamo dell'Italia. Il mio senso di “appartenenza”, nell'infanzia, è legato al luogo-paese, alle rughe e gli orti, alla mia confraternita religiosa. Sentivo vagamente della Calabria, non sapevo di appartenere a un “territorio regionale”. La dilatazione, estensione, prosecuzione del mio paese si chiamava Toronto, dove viveva mio padre, e verso dove partivano i miei compagni di giochi e di scuola. E anche Roma, Torino e Milano, dove vivevano parenti e paesani che tornavano l'estate. Torino e la Juventus; la Carpano e Nencini; il “Corriere dei Piccoli” e i fumetti. Alle medie ho cominciato a capire che esisteva un luogo Calabria, dove ero nato e vivevo. Col Sessantotto - quello dei figli dei braccianti, dei contadini, degli emigranti - ho imparato a sentirmi “americano” e “antiamericano”, “paesano” di Dylan e della beat generation. Ho scoperto l'esistenza dei Nord e dei Sud, dei centri e delle periferie, dell'Africa esterna e dell' «Africa interna», delle «nostre Indie di qui» (il Meridione e la Calabria). Nel tempo ho scoperto gli autori meridionalisti: Salvemini e Nitti, Alvaro e Strati, Silone e Levi. Ho letto (e scritto) dei “briganti” trucidati, dei paesi distrutti, della “conquista” militare del Sud, dei paesi che si svuotavano per fame. Mi sono sentito, a ragione, meridionale e calabrese. Ho scoperto, anche, “forestieri”, grandi intellettuali e studiosi (Zanotti Bianco, Isnardi, Pavese) che hanno capito e amato la Calabria. Ho ascoltato i racconti di coloro che hanno partecipato alla Prima guerra mondiale e si sentivano italiani. E i racconti dei contadini che occupavano la terra e degli emigrati che tornavano e cambiavano il mondo. Il mio senso di “appartenenza” si dilatava, si arricchiva. Diventavo “italiano” anche per la letteratura e per il cinema, per la lingua e per l'arte, per il calcio e per la musica: per quello che l'attuale governo sta distruggendo e smantellando. Italiano per i legami di affetto, stima e amicizia che mi legano ad altri italiani. Ho amato e amo Milano e Torino, Bologna e Venezia, Napoli e Genova e ho colto le mille linee che legano la Calabria a queste città. L'identità comporta addizioni e sottrazioni. Sentirmi qui e altrove, nei luoghi e fuori luogo, appaesato o straniero dovunque, è un'avventura sperimentata nel tempo. Nel 1993 ho pubblicato “La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale”: un inquietante razzismo antimeridionale, risalente almeno alla fine dell'Ottocento, si andava diffondendo al Nord, con finalità politiche, nel periodo in cui in Europa e nel mondo esplodevano terribili conflitti “etnici”. Immaginavo, allora, che i ceti politici, gli intellettuali, le tante persone illuminate del Sud riuscissero a dare risposte politiche, economiche e sociali, all'altezza della sfida dei tempi. Ho pensato che ai riti “arcaici” e postmoderni di Bossi si potesse rispondere con una tradizione culturale alta, quella dei Gioacchino da Fiore e dei Campanella, dei Vico e dei Croce, dei Telesio e dei Padula, di coloro che, per dirla con Alvaro, hanno saputo fornire apporti decisivi alla cultura nazionale ed europea. Avevo sperato che i sogni di libertà e di giustizia di briganti, contadini e braccianti potessero essere continuati da gruppi capaci, finalmente, di affrontare la “questione meridionale” come problema nazionale. Non è stato così. Abbiamo (adopero un “noi” da cui mi sento fuori) contribuito, invece, a favorire l'invenzione della “questione settentrionale”. Ci siamo spesi per affermare “napoletanità”, “calabresità”, “mediterraneità”, mentre le bellezze erano sciupate e i paesaggi devastati da mafie e politicanti. Troppi silenzi. Mille complicità. Abbiamo permesso che politicanti e criminali alimentassero gli stereotipi antimeridionali e gli egoismi del Nord. Gli slogan razzisti dei leghisti alla fine si sono tradotti in una sorta di “maledizione” che si è avverata. La frammentazione, lo sfarinamento, la mutazione dell'Italia non sono soltanto minacciate ma anche quotidianamente praticate, e non solo al Nord. Caduti nelle trappole della Lega, molti immaginano di uscirne inventando leghismi meridionali. Gli abitanti della Calabria hanno infinite ragioni per protestare e sentirsi espropriati, ma hanno, ormai, anche elementi per riflettere, per evitare autoassoluzioni generiche, per non incolpare sempre agli altri, per trovare in casa propria le ragioni della “disunità” d'Italia e anche della “disunità” dei loro paesi. Non convincono gli autori che fanno iniziare la storia del Sud con l'Unità d'Italia, dimenticando vicende più antiche e il Risorgimento meridionale, che è stato tradito e non sopporta altri tradimenti. Scrivere la storia “vera”, complicata, dolorosa del passato non significa creare revisionismi illiberali e autoassolutori che spingono alle divisioni. Sono inquietanti i libri che considerano gli 'ndranghetisti eredi dei briganti. Sentirsi italiani e calabresi, oggi, comporta, forse, essere “antitaliani” e “anticalabresi”: lontani da questa classe politica, da questi gruppi dirigenti, da una borghesia collusa e criminale. Perché amo luoghi e genti, rivendico tutto il diritto di rifiutare la melmosa “calabresità” che dovrebbe mettere assieme carnefici e vittime, gente onesta che vive con difficoltà e faccendieri che prosperano anche sulle catastrofi. L'identità basata su terra, sangue, origine fonda separatismi e “razzismi” e, come vediamo, stragi e tragedie. Su queste norme e regole “identitarie” fondano il loro consenso la criminalità che fa politica e la “politica” diventata criminale. Se continuiamo a distruggere la regione e ad autodistruggerci, non avremo più risorse da consegnare all'Italia che vogliamo. L'appartenenza a un luogo, a una nazione, al mondo non è un destino, non può essere una prigione, è una conquista e un processo senza fine e senza confini. Inseguire il “senso” di essere “calabrese” e “italiano”, di ogni luogo e di “nessun luogo altrove”, con “persuasione”. Vivere i luoghi senza il peso delle origini, senza dover ogni giorno fare dichiarazioni di appartenenza o inventare “identità contro”.