lunedì 6 aprile 2015

Nutri-menti

Alla ricerca del valore della convivialità.
Anche in cella i sapori di casa
 Un aspetto molto importante della giornata di un detenuto è legato ai modi che ognuno mette in atto per preparare i pasti giornalieri, e per alimentarsi in generale. Non esiste un principio fisso, ognuno si regola tenendo conto di una serie di variabili che vanno dalla disponibilità degli alimenti, dal tempo che si vuole dedicare alla cucina e dall’importanza che si dà alla soddisfazione di questo bisogno primario. Normalmente i detenuti tendono a preparare in cella soltanto la cena. Per quanto riguarda il pranzo, la maggior parte preferisce consumare un semplice panino. I motivi di tale scelta sono di svariato genere: come ad esempio il tempo a disposizione, che il più delle volte è breve specie per chi svolge una qualche attività, o perché il carrello del vitto passa a un orario insolito, alle undici del mattino quando non si ha ancora fame. Bisogna considerare che all’interno delle celle i detenuti non hanno a disposizione una cucina come a casa, ma un’attrezzatura molto limitata. Tutto è preparato su dei fornelli da campeggio  spesso la fantasia e l’ingegno riescono a far superare le difficoltà dovute alla mancanza degli utensili che in una normale situazione sono alla  portata di ognuno. Tutto questo non impedisce che il risultato sia il più delle volte eccellente, ma in ogni caso imparagonabile a un pasto preparato dai familiari.
 In carcere tutto ciò che è commestibile ed è portato delle famiglie dei detenuti, ha un valore speciale  per chi lo riceve, che va oltre il semplice aspetto nutritivo  perché il sapore e gli odori che promanano dalle pietanze  portano con sé anche gli affetti più cari e nello stesso tempo ricordi e immagini di vita familiare che accompagnano le giornate caricandole di una grande nostalgia. Alcuni, per svariati motivi, preferiscono consumare i pasti in solitudine privandosi del piacere di stare insieme agli altri, ma la maggior parte dei detenuti consuma il pasto serale in compagnia, ricreando, per poco tempo, un po’ di atmosfera e un po’ di intimità che solo nella propria famiglia si possono  trovare. Anche le persone più problematiche,  riconoscono l’importanza di sedersi a tavola insieme agli altri e gustare un cibo che va al di là dell’aspetto nutritivo che di volta in volta diventa linfa vitale ed energia per affrontare con coraggio la carcerazione. Ci sono dei detenuti che già di mattina presto, verso le otto, iniziano a tritare tagliuzzare a fare il soffritto e  a preparare il sugo che poi verrà consumato la sera.
Gli odori che si sprigionano invadono il “cellone” che oltre a ricordare i profumi di un passato lontano,  invogliano nel presente al buonumore. La tavola può essere anche un asse di legno con i piatti di carta,  non è importante, a volte basta un pezzo di pane con un po’ d’olio e l’origano a fare la differenza, oppure il vapore che si alza nel lavandino quando si scola la pasta. Altre volte ancora le parole di preoccupazione perché  mentre tutto è pronto in tavola manca ancora qualcuno. Un altro aspetto della preparazione dei pasti in cella riguarda la disponibilità e la solidarietà verso gli altri nel senso che quando a qualcuno manca la cipolla o un po’ di olio,  è facile reperirlo se la richiesta è fatta da una persona che non lo fa abitualmente. Attraverso la preparazione dei pasti avviene anche un intenso scambio di suggerimenti e di ricette, un intreccio di culture culinarie diverse dovuto alla presenza degli stranieri e anche alla presenza di detenuti provenienti da diverse zone della stessa Italia. Anche il piatto più semplice come la pasta aglio olio e peperoncino, che con molta probabilità è quello che si prepara più spesso, ha mille varianti  rispetto alla ricetta originale. Tanti aggiungono un tocco personale:  c’è chi aggiunge del pan grattato, chi le acciughe, chi il prezzemolo  al fine di rendere il tutto più gustoso. Un capitolo speciale meriterebbero i dolci, che vengono preparati in mille modi e per tutti i gusti, nonostante le difficoltà che si presentano e alle quali si è già accennato.             
Il pasto serale, diventa quindi più importante, un momento in cui ritrovarsi e condividere, oltre alla cena, del tempo con gli altri compagni di viaggio, “La mangiata” in galera  è principalmente convivialità .
                                                                                     
 (Angelo Aquino, Elio Puddu)
TEATRO-Dario Fo rappresentato a Bollate
Settimo: ruba un po’ meno
La sera del 9 maggio scorso al teatro della casa di reclusione di Bollate è stata rappresentata l’opera del maestro Dario Fo: “Settimo: ruba un po’ meno”. A portare in scena il lavoro del maestro Fo è stata la compagnia  di artisti “ Bovisateatro” che opera sulla scena milanese da circa dieci anni, come ci ha detto il regista Fernando Villa che ha curato il nuovo allestimento. L’opera era stata scritta cinquant’anni fa, dal maestro e premio Nobel Dario Fo, e racconta la vicenda del possibile trasferimento di un  camposanto dove lavora come becchino una donna (Enea) credulona ed amante della bottiglia che subisce quotidianamente le burle dei suoi colleghi. Questo improbabile trasloco, tra risa e lazzi, da inizio ad una serie di equivoci e di paradossi, che tra incomprensioni, cose dette e non dette, mette in evidenza e smaschera una vera speculazione ed un ricatto messi in atto da funzionari corrotti che cercano di lucrare sui terreni del camposanto, approfittando del proprio ruolo. La commedia si snoda in un crescendo di situazioni esilaranti che il pubblico gradisce tributandogli più di venti applausi a scena aperta. Alla fine l’intervento di “sua Eccellenza”, un potente uomo politico fa sì che lo scandalo venga insabbiato, ed i protagonisti che avevano ordito il malaffare si ritrovano tutti in manicomio con la qualifica di matti. Nel 2013 il direttore artistico della compagnia teatrale Giancarlo Monticelli così motivava la scelta di portare in scena questa commedia: “abbiamo voluto riproporre questo ‘classico’ di Dario Fo per la curiosità di verificare oggi l’attualità sconcertante di un testo che compirà tra poco i cinquant’anni. E abbiamo scoperto anche il piacere di lavorare su un grande esempio di teatro comico”. L’intuizione di Fo sul malcostume, ed in particolare sulle ruberie dei politici, ha avuto la sua conferma reale in modo clamoroso all’inizio degli anni ’90, del secolo scorso, con l’inchiesta “mani pulite”, che ha travolto un’intera classe dirigente ed il suo sistema partitico. Ma non è finita, oltre a tutti gli scandali grandi e piccoli che si sono verificati negli ultimi decenni la cronaca recente ci ha messo di fronte all’ennesimo scandalo, con alcuni dei personaggi che erano già stati inquisiti nel passato. Sembra quasi che le cronache si attengono scrupolosamente al copione del grande maestro e che i personaggi reali sono gli attori inconsapevoli di questa grande farsa. Nel 1977 Dario Fo presentando la ripresa televisiva del suo spettacolo diceva: “… è addirittura stomachevole come la realtà copi l’immaginazione”. Ed ancora nel 2010 in occasione della presentazione del dvd cosi ritornava sull’argomento: “Da allora è cambiato solo il fatto che adesso i nostri governanti, lungi dall’idea di dimettersi se beccati con le mani nel sacco, sono così pieni di spocchia che si sentono intoccabili e al di sopra delle leggi: al punto che, se queste non fanno comodo, zac, con un colpo di mano le trasformano, modificandole su misura, ad personam, come si dice. Insomma i politici della mia commedia erano quasi dei dilettanti, se paragonati a quelli di oggi. Al punto che, se dovessi riscriverla ora, dovrei cambiarle titolo: non più: Settimo: ruba un po’ meno, ma: Per favore: lasciate almeno qualcosa”.
 Angelo Aquino

      

MUSICA E DANZA

Tutta l’energia del canto popolare del Sud
Come ad una sagra di paese si scatena la Malapizzica
Sabato 24 maggio 2014 ore 15,00: La pizzica dentro, pizziche, tammurriate tarantelle del Sud Italia e stage di ballo con i Malapizzica. Così recitava la locandina che annunciava il concerto che si è tenuto nella casa di reclusione di Bollate. Il giorno stabilito sono andato a teatro, prima del concerto ho conosciuto l’addetto alla comunicazione del gruppo, Mariagrazia Santaniello la quale, qualche settimana dopo l’evento, mi ha fatto avere una serie di informazioni che riguardavano il gruppo musicale e la loro storia.
I Malapizzica sono nati a Milano nel 2006, inizialmente per il progetto di realizzare un concerto per Emergency e successivamente per i detenuti nel carcere di S. Vittore. L’amore per la musica tradizionale salentina , campana, e in genere di tutto il Sud d’Italia e il desiderio di trasmettere le energie delle pizziche, tammurriate, saltarelli e tarantelle in direzione di un impegno sociale, è lo spirito che anima il gruppo.
La formazione dei Malapizzica è composta dai musicisti. Rocco Garrapa salentino di Castrignano dei Greci, voce leader, chitarra, armonica a bocca e mandolino; Rosa Maurelli: voce, chitarra battente, tamburi a cornice, tromba, il cuore pulsante della formazione; Carlo Amori: voce e violino, l’ultimo approdo che completa ed arricchisce il sound del gruppo, da sempre nel “giro” delle danze popolari europee; Antonio Ricci: voce, organetto diatonico, chitarra, castagnette, cazou e triccheballacche, posteggiatore e grande interprete della canzone napoletana; Stefania Sforza: canto, chitarra, darbouka, tamburello e castagnette, la ricerca delle armonie nei suoni è il suo principale impegno; Franco Gallerani: al bouzuki, vecchio bluesman e storico accompagnatore di Rocco Garrapa fin dagli anni ’70; Domenico Schiattone: al contrabbasso, foggiano nato a Cantù, specialista nelle tarantelle pugliesi; Luciano Rovelli e Annalisa Campi: alle danze; Stefania Diaferia: fotografia e comunicazione; Mariagrazia Santaniello: comunicazione web e stampa; Matteo Citti: tamburello, percussioni, voce, tromba, che collabora con il gruppo.
Il concerto, sin dall’inizio, è stato coinvolgente e molto bello per varie ragioni. Per prima cosa la musica dei Malapizzica ha proposto i temi e i suoni della più rigorosa tradizione musicale popolare mediterranea, senza stravolgimenti o scorciatoie tipiche di un modernismo frettoloso e banale che il più delle volte ha snaturato e mortificato la bellezza di questa tradizione artistica. I testi dei brani sono molto conosciuti e parlano d’amore, di amicizia, del potere, del mare, della “spartenza”, della festa, della gioia di vivere, della sofferenza e del duro lavoro; cambia solo la lingua di interpretazione. A proposito di lingua il gruppo ha eseguito un brano, di loro composizione, che si può definire un esempio di archeologia linguistica dato che è stato scritto e interpretato in un idioma grecanico di antica memoria che alcune comunità della Puglia e della Calabria ancora parlano e custodiscono con gelosia e che risale ai tempi della Magna Grecia. Man mano che il concerto andava avanti gli spettatori, accogliendo l’invito al ballo (stage di ballo) e non sapendo resistere al richiamo forte della musica, si univano ai ballerini (mastri di ballo) del gruppo e ognuno istintivamente ballava mimando i passi che venivano loro suggeriti. Mi sembrava di essere a una sagra di paese o a un pellegrinaggio dove bastava e basta una zampogna, una chitarra, un organetto, un fischietto di canna per scatenare il ballo della vita per chi ha la possibilità di ballare nel cerchio che, di regola, si forma spontaneamente. Un momento molto partecipato è stato raggiunto quando è stata eseguita una quadriglia che è un ballo di gruppo ereditato probabilmente dalla denominazione francese. Lo spettacolo, ha suscitato in me tante emozioni, mi sono lasciato trasportare dai suoni che nota dopo nota si trasformavano in voci, volti e luoghi, e uno stato d’animo di struggente nostalgia mi ha fatto compagnia anche dopo la fine del concerto. Il ricordo mi ha riportato a rivivere tutte le volte che anch’io mi sono trovato a proporre la stessa musica dei Malapizzica con la stessa passione e intensità, consapevole dell’importanza di quello che stavo facendo e del messaggio che cercavo di trasmettere: una musica che attraverso il tempo era giunta sino a me ed la storia delle mie radici. Mentre tornavo al mio reparto pieno della musica che avevo ascoltato una voce femminile che conoscevo bene mi disse: “Piglia, piglia… piglia sa catarra ca cantamu nu stornellu” (Prendi, prendi… prendi la chitarra che cantiamo uno stornello), era mia madre. Una voce maschile suggerì: “Canta… Amuri ca ppì tia passu lu mari, e tu nun passi nu iumi ppì mia” (Amore che per te attraverso il mare ma tu non attraversi neanche un fiume per me) era mio padre. La voce femminile, dopo l’attacco della chitarra cantò: “Parti littira mia parti e camina, va mi lu trova chiru caru amuri…”, (Parti lettera mia parti e cammina, vai a trovare quel mio caro amore)… Grazie Malapizzica per il bel regalo che ci avete fatto.
Angelo Aquino           

   

Riflessioni

Il ricordo è il pane per costruire il futuro
Luoghi e tempi della memoria.  
Per luoghi e tempi della memoria s’intendono tutti i posti fisici e gli spazi temporali che sono stati gli scenari della nostra avventura umana. Ricorrono spesso nei nostri pensieri, in forma di ricordi che sono selezionati dalla nostra mente e diventano i punti di riferimento essenziali della nostra esistenza. Questi luoghi e questi tempi, il più delle volte, si presentano a noi in modo iconografico, vere immagini fotografiche, un po’ “ mosse”, che richiedono, da parte nostra, una “messa a fuoco”. Catturata bene la scena, la nostra memoria opera una serie di aggiustamenti, le immagini prendono forme più sicure e pian piano si animano e si materializzano in: volti, gesti, parole, suoni, colori, odori, sapori e tante altre cose che si percepiscono e si depositano nel nostro cervello, che sempre vigile le cattura e le archivia in modo automatico, pronte per essere rivisitate e riviste in qualche altra occasione. La casa natale, la città in cui si è vissuto, i posti delle vacanze, la sede dove si svolse il proprio lavoro sono i luoghi che ricompaiono più frequentemente dal nostro passato. Mentre gli spazi temporali riguardano i vari periodi della nostra vita: l’infanzia, la fanciullezza, l’adolescenza, la gioventù, la maturità e la vecchiaia. Tante volte capita che anche se siamo occupati a fare altre cose la mente pesca nel pozzo della memoria, apre l’album delle immagini, e ci impone a seguire ed a pensare alle cose che in quel momento vengono sottoposte alla nostra attenzione, tutto ciò avviene in modo inconscio. Altre volte i “sentieri” della memoria sono stretti, angusti, difficoltosi, somigliano a ripide salite o a precipitose discese, oppure, talvolta a radure e pianori più sicuri,  ma evocano sempre il cammino del nostro apprendistato, nel difficile “mestiere di vivere”. Le questioni che sono state affrontate poc’anzi prendono in considerazione aspetti del problema “memoria” che coinvolge, con modalità varie, l’individuo, il suo vissuto attraverso il ricordo che è di tipo soggettivo. L’argomento, in ogni caso, presenta altri aspetti e altre variazioni che vanno al di là di questa dimensione personale, ci si riferisce a quella che possiamo definire “memoria collettiva” che prende forma e  si manifesta sempre attraverso il ricordo personale ma poi travalica quest’ambito individuale e coinvolge gruppi sociali più o meno grandi ed a volte intere comunità. Questa memoria collettiva non è la storia con la S maiuscola che finisce sui libri raccontando ed annotando i fatti più importanti di un popolo e di una nazione. Nel nostro caso ci si riferisce al ricordo comune che è rievocato da più individui e, a volte, serve a indicare, rilevare un comportamento che può essere ricondotto alla sfera del bene e del male, ponendo l’accento su situazioni che, talvolta, trovano spazio nei proverbi, nei modi di dire tipici di una determinata zona geografica, che si tramandano, generalmente, in modo orale. La “memoria collettiva” quasi sempre ha origine da fatti realmente accaduti, ma qualche volta si basa su cose totalmente inventate. Nel passato i luoghi in cui nascevano e si consolidavano queste “storie minime” erano le vecchie botteghe   artigiane, il salone del barbiere, le osterie, ma principalmente le piazze di ogni contrada e paese. Oggi tutto è cambiato, la radio, la televisione, il telefono, internet hanno modificato le modalità della comunicazione tra gli individui ed anche tra i gruppi sociali. Tutto quello che accade e viene proposto diventa velocemente passato e con la stessa rapidità subito dimenticato. In particolare la televisione opera in modo da dare, specie nei programmi di informazione, notizie sensazionali pur di catturare l’attenzione dello spettatore, lasciando poco spazio agli approfondimenti ed alle riflessioni. Adesso sono i social network che veicolano notizie ed informazioni, influenzando milioni di utenti sparsi in tutto il mondo. Questo sistema comunicativo tende a creare, di regola, anch’esso la “memoria collettiva” ma si tratta di una “memoria collettiva” breve che non si stratifica, non decanta, non affonda le  radici  nell’immaginario collettivo comune e presto si disperde senza lasciare traccia. Al contrario il sistema dei social network agisce sugli individui come se fosse uno strumento insostituibile, un mezzo di comunicazione di cui nessuno può più fare a meno, al punto tale da creare, tra chi lo usa in modo spropositato, pericolose dipendenze. Dopo le considerazioni di carattere generale è utile fare riferimento, di nuovo, alla memoria individuale, riportando alcune delle modalità più comuni che attivano il ricordo . Probabilmente, ad ognuno di noi, sarà capitato di ascoltare un vecchio brano musicale, in circostanze del tutto casuali. Appena la musica viene percepita dall’udito, la mente, in un  attimo si mette in moto e ricostruisce un mosaico che ci riporta in uno spazio-tempo del nostro passato, mettendo in evidenza tanti particolari che stimolano tutti i nostri sensi,in modo preciso, fino a farci rivivere di nuovo quel determinato avvenimento della nostra vita vissuta. La nostra memoria è lo strumento che attraverso lo spartito dei ricordi suona la colonna sonora della nostra vita. Il ricordo diviene pian piano nutrimento solido, pane, per affrontare consapevolmente il futuro.
Angelo Aquino



Cantastorie

 Una figura tradizionale della letteratura orale e della cultura popolare
La storia cantata nei mercati e nelle piazze
Il mio incontro con i cantastorie avvenne all'inizio degli anni 60 allorché mio padre, emigrato in Germania per lavoro, in uno dei suoi rientri per le feste natalizie, portò un apparecchio radio, un giradischi e diversi dischi in vinile. Tra questi alcuni riguardavano i cantastorie, di cui ricordo Orazio Strano e Ciccio Busacca. Le loro voci e le loro chitarre hanno fatto da sottofondo alla mia fanciullezza nelle lunghe giornate quando a richiesta del vicinato, a volte, echeggiavano per l’intera giornata in tutto il rione. Avevo imparato a memoria tutte le storie a mia disposizione e nella fantasia le facevo rivivere guardando le scene stampate sulla copertina del disco che riproduceva il cartellone che era adoperato dai cantastorie durante le esibizioni dal vivo. Mettendo da parte i ricordi personali proverò a tracciare un profilo della figura del cantastorie così come si è manifestata nel tempo sino ad arrivare ai nostri giorni. Il cantastorie è una figura tradizionale della letteratura orale e della cultura popolare, che si spostava nelle piazze e raccontava con il canto una storia antica, spesso rielaborata o riferita ad avvenimenti contemporanei. Si accompagnava con la chitarra, ma a volte anche con la fisarmonica o, in tempi più remoti, con la lira. Si aiutavano con un cartellone, dove era raffigurata la storia, descritta nelle principali scene. La loro opera era remunerata con le offerte degli spettatori o con la vendita di foglietti volanti, dove era descritta la storia. Dopo gli anni 50, con l'avvento del vinile, queste storie erano incise e vendute su dischi, prima a 78 giri, poi 45.
Wikipedia ci ricorda che questa tradizione deriva da lontani precedenti, quali gli aedi e rapsodi greci e i giullari, menestrelli, trovatori o trovieri del Medioevo francese e nella scuola poetica siciliana. Simili figure sono presenti anche nella cultura islamica, indiana e africana. A partire dal XIV secolo si allontanarono dalla letteratura più colta e contribuirono a diffondere in dialetto le gesta dei paladini carolingi della Chanson de geste. Furono appoggiati dalla Chiesa con lo scopo di diffondere presso il popolo le storie dei santi e della Bibbia. Nel 1661 a Palermo i Gesuiti avevano costituito la congregazione degli "Orbi", cantori ciechi a cui veniva insegnato a suonare uno strumento musicale e che erano legati a temi esclusivamente religiosi sotto il controllo ecclesiastico. Anche Giuseppe Pitrè descrisse quest’ultimo fenomeno prevalentemente siciliano annotando: “I sonatori di violino in Sicilia sono quasi tutti ciechi e perciò chiamati per antonomasia orbi… l’orbo nato o divenuto tale nei suoi primi anni di vita, non sapendo cosa fare per vivere, impara da fanciullo a sonare, e non solo a sonare, ma anche a cantare… le molte feste popolari dell’anno gli danno sempre qualche cosa da guadagnare”.
Il periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta del Novecento fu l’epoca di maggior diffusione dei cantastorie, contestualmente crebbe nei loro conronti anche l’interesse degli studiosi che si occupavano di tradizioni popolari e di cultura orale. Roberto Leydi, etnomusicologo, iniziò a occuparsi dei cantastorie sin dai primi anni 50 raccogliendo sul campo i documenti sonori che testimoniano l’opera di questi artisti e la loro diffusione in tutta la Penisola: una mole impressionante di materiali, in particolare 1400 nastri magnetici che sono conservati presso il Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona, in Svizzera. Nei suoi studi evidenziò la differenza sostanziale che intercorre tra il cantastorie e gli altri esecutori di musica popolare. “Il cantastorie rielabora il materiale raccolto o lo inventa di sana pianta, prima di proporlo al pubblico, questo lo fa in modo consapevole, ricercando elementi di novità atti a suscitare interesse e gradimento durante l’ascolto”.
In ogni fiera, in ogni sagra di paese, in ogni festa, nelle campagne come in città, questo menestrello portava le sue storie e le sue ballate che potevano, a volte, far ridere ma anche commuovere lo spettatore, e in modo inconsapevole svolgeva un ruolo quasi da giornalista raccontando i fatti di cronaca a un pubblico composto, più che altro, da contadini per lo più analfabeti. La ricerca sul campo ha evidenziato che spesso chi sceglie il mestiere di cantastorie lo fa perché non ha altra scelta o possibilità per vivere. Con riferimento alla definizione di cantastorie gli stessi interessati, con ironia, si dichiarano “… divulgatori di storie in versi talvolta scritte da noi stessi”.
Nello spettacolo di questi artisti, in particolare, se questo avveniva nei mercati o nelle fiere, gli studiosi hanno individuato delle fasi tipiche e ricorrenti: la creazione del treppo (pubblico interessato all’evento), tenuta del treppo, l’imbonimento, la rottura. Per suscitare l’interesse dei potenziali spettatori ogni artista aveva le sue tecniche collaudate, l’abilità consisteva nel far sì che le persone rimanessero sino alla fine dello spettacolo, per questo scopo erano vezzeggiate dal cantastorie, affinché nel momento della “rottura” fossero predisposti e disponibili a dare un’offerta.
Si tratta di una rappresentazione semplice, popolare, anche il tema musicale mantiene questa semplicità ed è basato su pochi accordi e, in genere, le melodie sono orecchiabili, facili da imparare e ricordare a memoria. Il cantastorie è il comunicatore per eccellenza perché la sua arte ha come base gli archetipi della comunicazione: immagini, parole e suoni. Di solito erano loro stessi a scrivere i testi delle storie, ma qualche volta è capitato che dei veri poeti scrivessero i testi di storie diventate poi molto famose. E’ il caso dei poeti Ignazio Buttitta e Turi Bella. Mentre il più famoso disegnatore di cartelloni destinati ai cantastorie fu Vincenzo Astuto. Il primo “Congresso Nazionale dei Cantastorie” si svolse nel 1954 a Bologna nel cortile della trattoria Profeti e vide la presenza di artisti provenienti da diverse regioni. Nel 1957 fu istituito il premio Trovatore d’Italia, e assegnato fino al 1975. Dal 1986 si tiene ogni anno una rassegna di cantastorie a Casalecchio di Reno e a Sant’Arcangelo di Romagna. Di seguito, brevemente, voglio ricordare alcuni nomi di cantastorie che hanno praticato quest’arte con successo. Incominciamo con Orazio Strano, il più famoso cantastorie siciliano, che per primo con Turi Bella scrisse La storia di Salvatore Giuliano re di li briganti. Successivamente scrisse in collaborazione ancora con Turi Bella Peppi Musulinu re di l’Asprumunti. Ciccio Busacca, anche lui siciliano di Paternò, aveva una voce molto potente che sapeva modulare molto bene sia nella parte del canto che nel racconto, fu tra i primi a usare la chitarra elettrica nelle sue registrazione su disco. Lamentu ppi Turiddu Carnevali scritta con Ignazio Buttitta fu una delle sue opere più famose. Partecipò a diversi programmi televisivi e radiofonici e pure lui nel 1957 vinse il premio Trovatore d’Italia istituito in quell’anno, come abbiamo già detto. Otello Profazio è definito il “principe dei cantastorie”: grande studioso di tradizioni popolari con la sua opera ha salvato dall’oblio una quantità notevole di “distici” che altrimenti sarebbero spariti per sempre. Tra le sue opere più importanti e famose ricordiamo: Peppi Musolinu e Qua si campa d’aria, con quest’ultima raggiunse una grande notorietà. Enzo Del Re nel 2010 partecipò al concerto del 1° maggio a Roma presentando i brani Lavorare con lentezza e Tengo ‘na voglia ‘e fa’ niente: la sua caratteristica era quella di usare una sedia di legno che utilizzava come percussione durante le sue esibizioni. Pino Masi fece dell’impegno politico il filo conduttore anche della sua vita artistica, tra le sue opere ricordiamo La ballata di Pinelli. Franco Trincale, siciliano di nascita, svolse principalmente in Lombardia la sua attività. Fino a non molto tempo fa era facile trovarlo in piazza Duomo a Milano a raccontare le sue storie. Poi ancora Vito Santangelo, Turi Di Prima, Leonardo Strano, Giovanni Boldrini, Angelo Brivio, Marino Piazza, Dina Boldrini, Ciccio Rinzino, Angelo Cavallini e la moglie Vincenzina Mellini. Un pensiero speciale va a Rosa Balistreri, grande interprete della musica popolare di tradizione. La sua vita è stata molto dura, tempestata da molte tragedie e da tanta miseria, visse in strada e conobbe anche il carcere. Era una donna con un fisico minuto, ma con una voce straordinaria, potente incisiva, intrisa da una sofferenza quasi dolorosa che a volte si trasformava in un grido di rabbia. La sua opera ha lasciato un segno indelebile nel mondo dei cantastorie e della musica popolare.


Angelo Aquino