domenica 2 novembre 2008

2 Novembre

Un serpentone lungo, nero, cominciava a muoversi dal piazzale della chiesa per le vie del paese e poi lungo la strada in salita e tutta curve, polverosa d’estate e infangata d’inverno, per arrivare fino al cimitero. Ragazzi indaffarati a vendere lumini e mezze candele, che tutti compravano, sul ricavato della vendita gli spettava una paghetta che i vari negozianti riconoscevano, pochi spiccioli che venivano spesi per il cinema, qualche sigaretta, o per qualche leccornia tipo i kaki, sì i kaki, che proprio in quel periodo erano nel pieno della maturazione e della loro dolcezza, era quasi un frutto proibito. La processione di donne, vedove, orfane, ragazzi, padri, madri, a crocchi familiari, con l’avvicinarsi al cimitero procedeva sempre più sommessamente, alcune donne recitava qualche litania di cui forse non conosceva il significato, parole imparate a memoria, sentite chissà quante volte, rispondevano in automatico ad ogni finire di frase del prete. Tante viuzze, tombe nella nuda terra, sopra la terra loculi a più piani, cappelle gentilizie “ Qui giace……… nato il…. e morto il….” . Tombe senza croci, croci arrugginite, croci e date tracciate nell’intonaco in attesa d’una lapida che non fu mai posta, date e nomi incise nel marmo o con lettere dorate; li sotto dove tutto giace e tutto uguale, sopra tutto è diverso. La ricerca del luogo del proprio caro, l’accensione d’una candela prendendo a prestito la fiamma d’una candela a fianco, un lumino: qualcosa comincia a muoversi dentro, un istinto irrefrenabile. Non si prega, non si sa pregare perché nessuno glielo ha mai insegnato, si sa solo piangere perché lo hanno sentito ed imparato di generazione in generazione. La figlia piange il padre o la madre, la moglie il marito, la sorella il fratello. Gli uomini non piangono non lo sanno fare, non glielo hanno mai insegnato. Due madri: Una piange il giovane figlio morto in Canada, un’altra piange il figlio morto in Svizzera. Son passati forse dieci o vent’anni dal quel triste evento, ogni anno il loro pianto è diverso, straziante come solo il pianto d’una madre che piange il figlio può essere. C’è sacralità nel rito preparatorio, una preparazione fisica e spirituale, la ricerca di una forza superiore, sussurrano parole a volte incomprensibili, quasi una nenia, frasi che terminano sempre con “figliu”, poi il parlato si fa più musicale. Il pianto inizia lodando la bontà, le fattezze, l’amore di quel figlio, intanto le dita delle mani cercano di sciogliere il nodo del fazzoletto nero che hanno in testa, con gesti lenti, misurati la coroncina di trecce sulla nuca si dipana, due lunghe trecce bianche s’appoggiano sul seno, lentamente le sciolgono, quelle stesse dita che un tempo porsero i capezzoli per allattare quei figli morti, cominciano a scarminare i capelli come per scegliere quelli più belli, ogni conclusione di frase finisce con una ciocca di capelli fra le mani che ripongono una dopo l’altra sopra la tomba. La musica del pianto, monodico, aumenta di volume, seguendo una partitura che si ripete da anni. Non si rivolgono mai a Dio, a Gesù o ad altri Santi, qualche volta entra in questo dialogo fra madre e figlio il nome della Madonna ‘A’’ Dulirata. Il pianto aumenta ancora di sonorità, il ritmo prima cadenzato, da marcia funebre, ora si fa incalzante, s’accompagna al movimento delle braccia che tendono verso l’alto, il dondolio del capo, le mani, i polpastrelli da prima sfiorano le guance, le unghie affondano nella carne tracciando un solco, lentamente il sangue affiora sul viso, poche gocce cadono sulla nuda terra come a voler ridare nuova vita a quel che rimane di quel corpo sepolto. Avevo quasi cancellato dalla memoria questi ricordi: Qualche anno fa ho riascoltato gli stessi suoni, rivissute le stesse emozioni in luogo distante mille e più chilometri. Una madre piangeva in casa il figlio morto, in quel luogo dove ancora vive, gli hanno detto che non s’usa piangere, né al cimitero né in chiesa, non sta bene. Povere madri calabresi, anche questo vi è stato tolto, piangere come vi hanno insegnato e come solo voi ‘’Ddulirate sapete.
Sartano, 1999