martedì 18 novembre 2008

L'altra Calabria

Acquaformosa, il paese arberesh dove la scuola la salvano i nonni di Enrico Fierro Qualcuno ha lo zainetto e si è messo il vestito della domenica, quello buono che si tira fuori solo nelle occasioni speciali, sul bavero una medaglia: Seconda guerra mondiale. Tutti hanno sui volti rigati dal tempo i segni di un orgoglio antico che viene dall’altra sponda del mare e che affonda le sue radici in una migrazione di sei secoli fa. Sono i nonni di Acquaformosa, poco meno di mille anime sui monti del Pollino. Vanno a scuola, classe prima elementare. Non sanno chi sia la Gelmini, quella scritta sui manifesti affissi in paese, la signora del Nord che da giovane avvocato ha fatto il suo tirocinio proprio qui in Calabria, a Reggio, nello studio di un noto avvocato comunista, e che ora vuole chiudere la loro scuola elementare. L’unica, quella dei nipotini. Non lo sanno, ma si iscrivono a scuola per protesta e per legittima difesa. E ora sono tra i banchi, insieme ai bambini e alle bambine del paese. Per molti è la prima volta, per pochi altri un ritorno dopo decenni. Benvenuti ad Acquaformosa. Anzi, «Mire se na erdhet Firmoza», come c’è scritto sui cartelli in doppia lingua: l’italiano e l’antico, musicale arberesh, la lingua di quei padri lontani che nel 1400 sbarcarono qui esuli dall’Albania. Firmoza, insieme a Civita (Cifti), Frascineto (Frasnita), San Basile (Shen Vasili) e Lungro (Ungra), è uno dei paesi della folta minoranza linguistica arberesh calabrese. Qui lingua e tradizioni si sono tramandate per secoli grazie ai nonni e alle loro favole, le nonne hanno insegnato i balli e i segreti del ricamo e della cucina. La modernità con le sue crudeli necessità, l’emigrazione, e le sue quotidiane tentazioni televisive, non ha mai «sporcato» idioma e tradizioni. Neppure la chiesa cattolica è riuscita a penetrare il culto greco-bizantino. Le severe icone della chiesa di Acquaformosa, l’inviolabilità dell’altare, l’odore di incenso e l’avvolgente silenzio, sono per il cronista un salto all’indietro: dieci anni fa, Prizren, Kosovo, visita ad un monastero ortodosso. Uguale. Ma siamo nella parte più amara della Calabria, terra di abbandoni e di gente abbandonata. Con il sindaco, Giovanni Manoccio che raccoglie una ventina di vecchietti, alcuni ultraottantenni, e li accompagna a scuola. L’unica elementare del paese a forte rischio chiusura. Il calo demografico fa perdere alunni, sono pochi e non bastano a raggiungere i requisiti numerici minimi. «La nostra non è solo una battaglia per il diritto all’istruzione, la scuola elementare è un presidio per la tutela delle nostre tradizioni». Perché ad Acquaformosa, come negli altri paesi arberesh oppure occitani, grazie a leggi nazionali e ad una legge regionale, per un’ora al giorno si studiano lingue e tradizioni antiche. «La chiusura della scuola», dice il sindaco, «è una vera e propria violenza». L’istituto è vecchio ma ristrutturato di recente. «Abbiamo speso 250mila euro per la messa in sicurezza, soldi che verranno buttati al vento». Gli spazi sono ampi ma non c’è l’ascensore e i vecchietti arrancano per le scale. Entrano timidi in aula, si siedono, simulando quello che potrà accadere all’avvio del prossimo anno scolastico. Con loro ci sono i bambini, un po’increduli, molto divertiti. Il sindaco parla e spiega le ragioni di questa protesta civile e ordinatissima. Tutti battono le mani. Anche le maestre. Un’ora dopo usciamo attraversiamo la strada principale, ovviamente intitolata a Skanderbeg, Giorgio Castriota, l’eroe albanese che ritroviamo riprodotto in un busto di marmo nella stanza del sindaco. Giovanni Manoccio è un uomo di sinistra che ama i buoni libri e la sua terra. «Qualcuno dice che la nostra è una battaglia arretrata, vecchia. Ma cos’è la modernità, cancellare questi paesi? Svuotarli a poco a poco? Azzerare progressivamente una cultura, una diversità che ha resistito nei secoli? La scuola è l’unico momento di aggregazione per i nostri bambini, il luogo dove si ritrovano e si riconoscono, il punto di contatto con la realtà. Chiuderla significa consegnarli totalmente alla televisione e ai suoi modelli. Ma poi è moderno costringere dei bambini a farsi venti chilometri al giorno per studiare? Riportare il calendario della storia indietro agli anni Cinquanta: grembiule, cartellina di cartone, scarpe sfondate e a scuola solo chi aveva i mezzi?». Acquaformosa, forse, la salveranno i nonni. Quelli che a Lungro, ti parlano della miniera di salgemma che occupava fino a 400 operai e che nel 1976 fu chiusa. «Ora è ridotta a una discarica - mi dice un vecchio operaio - e pensare che quello era il luogo del sacrificio, scendevamo fino a 265 metri, con la temperatura a 18 gradi per tirar via il sale». Nel salone del Municipio le vecchie foto della miniera, le lettere degli operai, gli stemmi delle Saline di Lungro, vecchi attrezzi di lavoro. Ricordi di vita strappati all’incuria degli uomini. «Sarebbe bello farci un museo», dice il vecchio operaio. Anche nell’antica Ungra tutto parla delle tradizioni, dalla particolare struttura urbanistica (la gjitonia) all’imponente monumento nella piazza principale naturalmente dedicato a Giorgio Castriota. «Le scuole in queste piccole realtà sono ormai l’unico strumento per conservare la cultura delle comunità. La loro chiusura va contro gli articoli della Costituzione e le leggi della Repubblica che tutelano le minoranze linguistiche. Per questa ragione abbiamo deciso di opporci e di proporre un ricorso alla Consulta». Donatella Laudadio è l’Assessore provinciale alle minoranze, nei giorni scorsi ha fatto un giro per i paesi del Pollino a rassicurare sindaci e famiglie: le scuole non chiuderanno. Nell’ufficio del sindaco di Acquaformosa, tra una bandiera con le aquile e un brevetto di partigiano dono di un paesano, sfogliamo le lettere dei bambini delle elementari. Grafie innocenti, ringraziamenti, inviti a recite e saggi di fine d’anno. E una petizione: «Signor sindaco siamo sfegatati fans dei “Cesaroni”, la preghiamo di invitare gli attori della fiction per la prossima rassegna di agosto». Giovanni Manoccio sorride: «Certo, per fortuna viviamo nell’Italia di oggi, anche in quella dei “Cesaroni”, ma non possiamo consentire a nessuno di uccidere il nostro passato. Non è giusto e soprattutto non è questa la modernità alla quale aspiriamo». Articolo tratto da L’Unita del 18 Nov 2008