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lunedì 16 febbraio 2009

Semel in anno licet insanire *

*Una volta all'anno è lecito impazzire
Durante il periodo di Carnevale, per tradizione, a Sartano, non si poteva lavorare. La violazione della regola prevedeva l’arresto (ovviamente scherzoso), del trasgressore del precetto. Di solito la persona che si prestava allo scherzo faceva in modo che gli amici sapessero in quale contrada di campagna sarebbe andato a svolgere il suo lavoro. Gli amici puntualmente si presentavo per eseguire l’arresto. Il rito prevedeva la legatura dei polsi e la sfilata per le vie del paese a dorso di un asino, con l’arrestato avvolto in una coperta. Seguiva il processo con conseguente condanna per mancato rispetto del divieto di lavorare. In genere la condanna consisteva nel mettere a disposizione degli amici nu garrafuni i vinu e na cuddrura i sazizza che venivano consumati in un’atmosfera ricca di canti tradizionali. La cerimonia dell’arresto si svolgeva, di consuetudine, la domenica o il lunedì di carnevale. Il divieto di lavorare non era l’unico: era proibito anche mangiare fichi secchi, tali frutti venivano nascosti nelle tasche dell’arrestato, a sua insaputa, in modo che la condanna fosse avallata dalla prova concreta della violazione del precetto. Il martedì grasso era consacrato alla morte di Carnevale. La rappresentazione prevedeva la sfilata per le vie del paese del morto, disteso su una scala di legno e accompagnato da lamenti e pianti:oih nannu, oih nannu, è muortu zu Carnilivaru”. Ogni tanto, la sfilata si fermava e bussava alle porte di qualche famiglia amica che la ospitava, lasciando però il morto fuori dall’uscio di casa, e le donava un fiasco di vino e del salame. La cerimonia durava fino a tardi; verso mezzanotte ci si riuniva per finire i festeggiamenti in allegria e consumare ciò che si era raccolto durante la sfilata. Il mercoledì cominciava “corajisima” accompagnata dal dettograttamuni a lingua” perché non si poteva più mangiare carne fino a Pasqua.
A cura di A. A.

giovedì 6 novembre 2008

Usanze

“U cùnzulu” Questa parola (cùnzulu) indica una serie di rituali e di comportamenti posti in essere, nel momento in cui, nel paese, si verifica un lutto. La comunità si stringe attorno alla famiglia nella quale si è verificato l’evento, compiendo una serie di azioni che culminano nella cerimonia du cùnzulu”. Dopo il funerale, nel primo mese di lutto la famiglia del defunto riduce al minimo le proprie attività tanto da non preparare neanche il pasto quotidiano; saranno gli amici, le persone più intime che a rotazione se ne occuperanno. Le persone che preparano u cùnzulu si devono attenere ad una serie di prescrizioni: bisogna preparare pasti abbondanti, portare tutte le stoviglie (non possono essere usate quelle della famiglia in lutto), le vettovaglie che avanzano devono rimanere alla famiglia in lutto. Tutto l’occorrente, compreso i pasti, viene sistemato in una o più”sporte” è coperto da un panno nero. Qualora il pranzo si dovesse protrarre oltre il calar del sole, le stoviglie, e tutto ciò che è servito per “u cùnzulu , viene ritirato il giorno dopo. Per un anno, in famiglia, non si confezioneranno le pietanze tradizionali di due importanti festività: saranno i parenti più stretti , i SanGiuvanni, a portare loro il giorno della festa, ‘u cuddracciu per Pasqua ed ‘i pittuli per Natale; per il giorno dei Morti un piatto di lagana e ciciri. Sono molte le tradizioni che col passare degli anni si modificano profondamente, o vengono assimilate con altre o spariscono definitivamente. ‘U cùnzulu rimane, per i morti ma soprattutto per i vivi. Angelo Aquino

sabato 2 agosto 2008

La fiera di San Domenico

Memorie intorno alla “Fiera di S. Domenico”. La mattina del 4 agosto, all’alba arrivava “ ra musica i Sa ‘Marcu" (banda musicale diretta dal Maestro Tamburino di S. Marco Argentano). Appena si udivano i primi colpi di tamburo i bambini, in un attimo, si precipitavanoin piazza, per seguire la banda che, intonando festosi brani, girava il paese guidata dal procuratore (Micucceddhra) della festa. I primi venditori ambulanti ( feraiùoli ) ad arrivare, con tre giorni d’anticipo,erano i vasai (gummulari) di Bisignano. Per le vie, che dalle campagne conducono al paese, imperversavano per due giorni animali d’ogni genere (ovini, caprini, suini, bovini, equini, galline, tacchini ecc. ) per essere venduti o per portare a casa quelli acquistati o invenduti. Per l’occasione funzionava una specie di ristorante all’aperto (‘A quadareddhra) che dava la possibilità agli avventori di consumare l’unico piatto del giorno a base di spezzatino di carne. Nella calura tipica della giornata agostana, si trovava un po’ di refrigerio sorseggiando una dolce e fresca granita dai festosi colori dello sciroppo alla menta, all’arancia o al limone. Alla sera i bambini, appagati, tornavano a casa con un nuovo carusieddhru (salvadanaio di terra cotta) per romperlo a Natale, per chi poteva, o alla prossima fiera di S. Domenico. I giovani, per tradizione, usavano comprare insieme delle angurie, di oltre 20 kg. che consumavano negli orti circostanti al paese. Dopo gli anni ’50 la fiera di S. Domenico si trasformò inesorabilmente, man mano che passarono gli anni ’60 perse le sue specificità, nel senso che gli artigiani ed i loro prodotti vennero risucchiati dalla produzione di massa. La maggior parte delle cose che venivano acquistate nelle fiere furono disponibili tutto l’anno. Ai giorni nostri la fiera di S. Domenico ha soltanto un significato simbolico e non si distingue da un normale mercato che si svolge settimanalmente in ogni paese. Uniche novità sono il colore dei vestiti e dei visi dei commercianti che si muovono dietro le bancarelle. Angelo Aquino

sabato 19 luglio 2008

Spigolature

L'hanu misu a pani jancu (L'hanno messo, a mangiare, pane bianco). Nicola Misasi, in uno dei suoi racconti annota questo modo di dire che veniva usato per indicare che un contadino era in punto di morte. Questa espressione che era ancora ricordata dai vecchi, nella seconda metà dell'ottocento, racchiude in se la tragica tristezza da cui sono stati dominati per secoli i contadini calabresi. La tragicità è resa più acuta dal fatalismo con cui quella gente accettava la sua misera condizione. Era in essa, prima che nelle classi dominanti, l'accettazione passiva della miseria: del che i "galantuomini" approfittavano per conservare i propri privilegi. Si diventa ghiottoni in punto di morte: si vuole la leccornia. si vuole il cibo squisito, si vuole andare di la con la bocca dolce; il contadino che muore, vuol gustarla anche lui questa ineffabile felicità del signore, del ricco, del "galantuomo", un pezzo di pane, bianco come neve, leggero, poroso, morbido, rosolato nella crosta. Per tanti e tanti anni si è cibato di pane di lupini, di orzo, di castagne, di ceci, duro, pesante, secco, aspro, che scortica la bocca, che fa male ai denti, e che pesa come piombo nello stomaco. Il "galantuomo" è il signore, il proprietario; per il contadino esiste una tremenda scala gerarchica. Prima: Iddio, poi il galantuomo, poi i cani del galantuomo poi lo staffiere del galantuomo, poi tre volte nulla ed infine il contadino. Così afferma un grande scrittore meridionalista, Ignazio Silone, nel suo romanzo "Fontamara". Sicché avere qualcosa degli agi del galantuomo, qualcosa di possibile, non può essere altro, per il contadino, che mangiare, almeno prima di morire, un po' di pane bianco. (1) A cura di: Angelo Aquino (1) Nicola Misasi: Mentre piove, pag. 26/27, note di G. Gallo.