domenica 24 gennaio 2010

La melma avanza

E' difficile, anzi impossibile, seguire le attività dei vari partiti, in special modo quelli della sinistra,in questo periodo di Omerica memoria, dove durante il giorno abili mani e menti fine tessono variegati intrecci per poi disfarli di notte. Avevo, in questo piccolo spazio, pubblicato un sondaggio, l'ho tolto, non ha senso, sarebbe stato come pretendere di indovinare una cinquina al gioco del lotto. Mi riprometto di ripubblicarlo dopo la definitiva presentazione dei candidati,manca un mese abbondante, molte cose succederanno ancora, si naviga a vista e la confusione è totale.
Teniamoci in vista, Carnevale arriverà comunque.

mercoledì 13 gennaio 2010

Poesia di Franco Costabile

Il canto dei nuovi migranti




Ce ne andiamo.

Ce ne andiamo via.



Dal torrente Aron

Dalla pianura di Simeri.



Ce ne andiamo

con dieci centimetri

di terra secca sotto le scarpe

con mani dure con rabbia con niente.



Vigna vigna

fiumare fiumare

Doppiando capo Schiavonea.



Ce ne andiamo

dai campi d'erba

tra il grido

delle quaglie e i bastioni.



Dai fichi

più maledetti

a limite

con l'autunno e con l'Italia.



Dai paesi

più vecchi più stanchi

in cima

al levante delle disgrazie.



Cropani

Longobucco

Cerchiara Polistena

Diamante

Nao

Ionadi Cessaniti

Mammola

Filandari...



Tufi.

Calcarei

immobili

massi eterni

sotto pena di scomunica.



Ce ne andiamo

rompendo Petrace

con l'ultima dinamite.



Senza

sentire più

il nome Calabria

il nome disperazione.



Troppo tempo

siamo stati nei monti

con un trombone fra le gambe.

Adesso

ce ne scendiamo

muti per le scorciatoie.



Dai Conflenti

dalle Pietre Nere da Ardore.



Dal sole di Cutro

pazzo sulla pianura

dalla sua notte, brace di ucccelli.



Troppo tempo

a gridarci nella bettola

il sette di spade

a buttare il re e l’asso.

Troppo tempo

a raccontarci storie

chiamando onore una coltellata

e disgrazia non avere padrone.

Troppo

troppo tempo

a restarcene zitti

quando bisognava parlare, basta.



Noi

vivi

e battezzati

dannati.

Noi

violenti

sanguinari

con l'accetta

conficcata

nella scorza

dei mesi degli anni.

Noi morti

ce ne andiamo

in piedi

sulla carretta.

Avanzano le ruote

cantano i sonagli verso i confini.



Via!

Via

dai feudi

dagli stivali dai cani

dai larghi mantelli.



Ussahè…



Via

Via!



Via

dai baroni.



I Lucifero

I conti Capialbi

I Sòlima gli Spada

I Ruffo

I Gallucci.



Usciamo

dai bassi terranei

dal sudario

dei loro trappeti

dai parmenti

della vendemmia

profondi

a lume di candela

e senza respirazione.



Via

dai Pretori

dalla Polizia

dagli uomini d'onore.





Non chiamateci.

non richiamateci.



È scritto

nei comprensori

È scritto

nei fossi nei canali

È scritto

in centomila rettangoli

alto

su due pali

Cassa del Mezzogiorno

ma io non so

che cosa

si stia costruendo

se la notte

o il giorno.



Ci sono raffiche

su vecchie facciate

che nessuno leva: l'occhio

del Mitra

è più preciso

del filo a piombo della Rinascita.



Addio,

terra.

Terra mia

lunga

silenziosa.



Un nome

non lo ebbe

la gioventù

non stanchiamoci adesso

che ci chiamano col proprio cognome



Nnoi

Noi

ce ne siamo

già andati.



Dai catoi

dagli sterchi orizzonti.



Da Seminara

dalle civette di Cropalati.



Dai figli

appena nati

inchiodati nella madia

calati dalle frane

dall'Aspromonte

dei nostri pensieri.

Spegnete

le lampadine della piazza.

scordiamoci

delle scappellate

dei sorrisi

dei nomi segnati

e pronunciati per trentasei ore.



Cassiani

Cassiani

Cassiani

Cassiani

Foderaro Galati

Foderaro

Antoniozzi

Antoniozzi

Cassiani

Cassiani



La croce

sulla croce,

diceva l'arciprete.

E una croce

sulla croce,

segnavano le donne.

andavano

e venivano.



Foderaro

Antoniozzi

Antoniozzi



È stato

sempre silenzio.

silenzio

duro

della Sila

delle sue nevicate a lutto.



È stato

il pane a credenza

portato

sotto lo scialle

all'altezza del cuore.

Sono stati

i nostri occhi stanchi

guardando

le finestre illuminate

della prefettura.



Carabinieri,

fermatevi.



Guardate,

giratevi

non c'è nemmeno un cane.

Siamo

tutti lontani

latitanti.



Fermatevi.



Rrestano

gli zapponi

dietro la porta,

icieli,

i vigneti.

La pietra

di sale sulla tavola.



I vecchi

che non si muovono

dalla sedia, soli

con la peronospera nei polmoni.

Le capre

la voce lunga

degli ultimi maiali scannati.

L'argento

a forma a forma di cuore, nella chiesa.

Le ragnatele

dietro i vetri, le madonne.

la ragnatela del Carmine

la ragnatela di Portosalvo

la ragnatela della Quercia



Restano le donne

consumate da nove a nove mesi

con le macchie

della denutrizione

della fame.



Le addolorate

Le pietà di tutti gli ulivi,

Lavando

rattoppando

cucinando su due mattoni

raccogliendo

spine e cicoria.



Cancellateci

dall'esattoria



Dai municipi

dai registri

dai calamai

della nascita.



Levateci

il I giorno di scuola

senza matita

senza quaderno

senza la camicia nuova.



Toglieteci

dalle galere.

Non ubriacateci.

Liberateci

dai coltelli di Gizzeria

dal sangue dei portoni.

Non chiamateci da Scilla

con la leggenda

del sole

del cielo

e del mare.



Siamo

ben legati

a una vita

a una catena di montaggio



Scioglieteci

dai limoni

dai salti

del pescespada.



Allontanateci

da Palmi e da Gioia.



Noi

vivi

Noi

morti

presi

e impiccati

cento volte

ce ne siamo già andati

staccandosi dai rami,

dai manifesti della repubblica.



Di notte

come lupi

come contrabbandieri

come ladri.



Senza un'idea dei giorni

delle ciminiere degli altiforni.

Siamo

in 700 mila

su appena due milioni.

Siamo

i marciapiedi

più affollati.

Siamo

i treni più lunghi.

Siamo

le braccia

le unghie d'Europa.

Il sudore Diesel.

Siamo

il disonore

la vergogna dei governi.



Il Tronco

di quercia bruciata

il monumento al Minatore Ignoto



Siamo

l'odore

di cipolla

che rinnova

le viscere d'Europa



Siamo

un'altra volta

la fantasia

degli dei.

Milioni di macchine

escono targate Magna Grecia.

Noi siamo

le giacche appese

nelle baracche nei pollai d'Europa.



Addio,

terra.

Salutiamo,

è ora.

martedì 12 gennaio 2010

Rosarno



ABBIAMO SMARRITO IL SENSO DELLA NOSTRA STORIA

di VITO TETI

Sprofondati sui nostri divani, li osserviamo mentre fuggono scacciati da Rosarno. Noi vagamente impegnati nei propositi buoni per smaltire gli stravizi alimentari delle feste, le nostre pattumiere appena svuotate da chili di pane, panettoni e cibi che li avrebbero nutriti per un mese almeno, lì nei baracconi dismessi, dove non cercavano riparo nemmeno gli animali. Sfilano le immagini nelle nostre case comode - magari incompiute, frutto di sacrifici di quei lager più vergognosi forse di quelli nazisti. Noi che sprechiamo acqua come nessuno in Europa, qui nella terra dei profumi, agrumi spremuti a sangue? Li vediamo improvvisare un muro di vecchi copertoni d'automobile e qualche calderone d'acqua calda, pur di riuscire a lavare via fatiche inimmaginabili. Noi che siamo stati emigrati, che siamo fuggiti, che abbiamo conosciuto il razzismo degli altri, ci chiediamo ora cosa abbiamo fatto per impedire questo strazio. Noi, eredi degli emigrati che sono stati chiamati gipsy, zingari, «razza maledetta», «uccisori di Cristo», noi nipoti e figli di uomini vissuti nelle baracche e morti nelle miniere, pensiamo mai ai sentimenti di tutta questa umanità dolente?
Siamo eredi di mille popolazioni “straniere”, abitiamo una terra crogiuolo di popoli, ma non li abbiamo trattati come uomini. Dell'ospitalità facciamo vanto e retorica, proclamiamo l'odio per ogni forma di violenza, noi che comprendiamo la paura della gente di Rosarno e la sua irritazione per la “guerriglia” degli immigrati, noi che non pensiamo che siamo diventati improvvisamente razzisti, noi che abbiamo contribuito con la nostra ipocrisia, i nostri silenzi, le nostre complicità a trasformare queste persone in fiere arrabbiate, ma forse le bestie inferocite siamo proprio noi, pronti a braccare, o ad applaudire chi stana le prede. Noi figli dei contadini che hanno occupato le terre, noi che abbiamo sfilato nella piana contro i caporali e abbiamo pianto Giuseppe Valerioti, ucciso dalla ndrangheta, abbiamo perso la memoria, smarrito il senso della nostra storia. Noi che abbiamo cercato pane e lavoro in tutto il mondo, li guardiamo fuggire su un pullman, scortati dalla polizia per evitare il linciaggio. Noi “fieri” e “forti calabresi”, noi che gliela abbiamo “fatta pagare a questi sporchi negri”, noi che “abbia - mo liberato il territorio dalla feccia dell'umanità”, quando e perché abbiamo accettato di perdere la libertà, siamo caduti sotto il governo della ndrangheta, che manipola le nostre vite, le nostre case, i nostri legami, le nostre passioni? Abbiamo provato paura e terrore vedendo le macchine incendiate, i negozi assediati, ma dovremmo pensare anche alla rabbia di costoro, che hanno paura, fame, sono disperati e feriti.
Fermiamoci a pensare a Mimmo Lucano, sindaco di Riace, che chiede scusa agli immigrati e a come possiamo confortarlo, come sapremo riparare a una vergogna, conciliarci con i luoghi. Sostiamo pensosi, noi che a Riace ci siamo commossi nel vedere il sin- daco e gli abitanti tutti attendere nel buio della notte le ombre dei palestinesi, cacciati da tutte le terre, scarti degli scarti. Continuiamo pure ad agitarci, a lamentarci, ad esasperarci, ma al- meno questi nuovi schiavi forse possono restituirci il senso della nostra schiavitù, questi derelitti ci fanno avvertire il peso della nostra indifferenza. Noi ossessionati dall'immagine di noi stessi, suscettibili retori della calabresità, sempre pronti a considerarci i primi, noi che “ci pare brutto”, noi che i leghisti ce l'hanno con i meridionali, cosa risponderemo, nel nostro cuore, a quelle persone che fuggono dicendo che la Calabria è la regione più razzista d'Europa, il luogo da cui scappare e dove non torna- re? Noi che abbiamo preferito chiudere gli occhi, tanto ci sentivamo a posto con i nostri articoli, le nostre denunce, la nostra carità comoda, la nostra ospitalità a buon mercato, come contrasteremo ora i leghismi e i localismi? Con quali occhi guarderemo le donne che si occupano dei nostri vecchi, gli immigrati che riempiono i nostri vuoti, gli africani che popolano le campagne che abbiamo abbandonato? Noi che ci dedichiamo allo struscio, che pregustiamo già il pranzo della domenica, nell'attesa della partitissima Juve Milan, incrociando tra uno zapping e l'altro quei volti spenti, macerie di esseri umani spediti nei centri di accoglienza, avremo il coraggio di pensare che questi paesi ora sono ancora più vuoti, più soli, più poveri, senza milleduecento fratelli, vittime forse delle nostre stesse ombre? Noi che non abbiamo dubbi e noi che non abbiamo certezze, troviamo il coraggio di fissare questa pagina dolorosa della nostra terra che evoca, e non sembri un'esagerazione, l'eccidio dei Valdesi voluto dagli oppressori del passato. Noi che ci lamentiamo e non ci ribelliamo, che conosciamo la retorica e le perversioni dell'onore e magari manteniamo ancora il senso della dignità e proviamo vergogna, troviamolo il coraggio di ringraziare questi emigrati che sono fuggiti muti e increspati come le nubi di questi giorni che hanno cancellato le nuvole bionde e sorridenti della Piana. Chiediamoci noi - tanto e tale è il disagio - che idea abbiamo di questo noi, chi siamo diventati, noi. E come sarei tentato di chiamarmi fuori da questo noi!
Vito Teti

Tratto dal Quotidiano della Calabria del 11-01-2010