sabato 1 gennaio 2011

Italia e Calabria, crisi di identità lunga 150 anni

31/12/2010
di VITO TETI

Non c'è molto da festeggiare, nel 2011, per i centocinquanta anni dell'Unità d'Italia: c'è da pensare. Potremmo, forse, domandarci qual è l'idea che abbiamo dell'Italia. Il mio senso di “appartenenza”, nell'infanzia, è legato al luogo-paese, alle rughe e gli orti, alla mia confraternita religiosa. Sentivo vagamente della Calabria, non sapevo di appartenere a un “territorio regionale”. La dilatazione, estensione, prosecuzione del mio paese si chiamava Toronto, dove viveva mio padre, e verso dove partivano i miei compagni di giochi e di scuola. E anche Roma, Torino e Milano, dove vivevano parenti e paesani che tornavano l'estate. Torino e la Juventus; la Carpano e Nencini; il “Corriere dei Piccoli” e i fumetti. Alle medie ho cominciato a capire che esisteva un luogo Calabria, dove ero nato e vivevo. Col Sessantotto - quello dei figli dei braccianti, dei contadini, degli emigranti - ho imparato a sentirmi “americano” e “antiamericano”, “paesano” di Dylan e della beat generation. Ho scoperto l'esistenza dei Nord e dei Sud, dei centri e delle periferie, dell'Africa esterna e dell' «Africa interna», delle «nostre Indie di qui» (il Meridione e la Calabria). Nel tempo ho scoperto gli autori meridionalisti: Salvemini e Nitti, Alvaro e Strati, Silone e Levi. Ho letto (e scritto) dei “briganti” trucidati, dei paesi distrutti, della “conquista” militare del Sud, dei paesi che si svuotavano per fame. Mi sono sentito, a ragione, meridionale e calabrese. Ho scoperto, anche, “forestieri”, grandi intellettuali e studiosi (Zanotti Bianco, Isnardi, Pavese) che hanno capito e amato la Calabria. Ho ascoltato i racconti di coloro che hanno partecipato alla Prima guerra mondiale e si sentivano italiani. E i racconti dei contadini che occupavano la terra e degli emigrati che tornavano e cambiavano il mondo. Il mio senso di “appartenenza” si dilatava, si arricchiva. Diventavo “italiano” anche per la letteratura e per il cinema, per la lingua e per l'arte, per il calcio e per la musica: per quello che l'attuale governo sta distruggendo e smantellando. Italiano per i legami di affetto, stima e amicizia che mi legano ad altri italiani. Ho amato e amo Milano e Torino, Bologna e Venezia, Napoli e Genova e ho colto le mille linee che legano la Calabria a queste città. L'identità comporta addizioni e sottrazioni. Sentirmi qui e altrove, nei luoghi e fuori luogo, appaesato o straniero dovunque, è un'avventura sperimentata nel tempo. Nel 1993 ho pubblicato “La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale”: un inquietante razzismo antimeridionale, risalente almeno alla fine dell'Ottocento, si andava diffondendo al Nord, con finalità politiche, nel periodo in cui in Europa e nel mondo esplodevano terribili conflitti “etnici”. Immaginavo, allora, che i ceti politici, gli intellettuali, le tante persone illuminate del Sud riuscissero a dare risposte politiche, economiche e sociali, all'altezza della sfida dei tempi. Ho pensato che ai riti “arcaici” e postmoderni di Bossi si potesse rispondere con una tradizione culturale alta, quella dei Gioacchino da Fiore e dei Campanella, dei Vico e dei Croce, dei Telesio e dei Padula, di coloro che, per dirla con Alvaro, hanno saputo fornire apporti decisivi alla cultura nazionale ed europea. Avevo sperato che i sogni di libertà e di giustizia di briganti, contadini e braccianti potessero essere continuati da gruppi capaci, finalmente, di affrontare la “questione meridionale” come problema nazionale. Non è stato così. Abbiamo (adopero un “noi” da cui mi sento fuori) contribuito, invece, a favorire l'invenzione della “questione settentrionale”. Ci siamo spesi per affermare “napoletanità”, “calabresità”, “mediterraneità”, mentre le bellezze erano sciupate e i paesaggi devastati da mafie e politicanti. Troppi silenzi. Mille complicità. Abbiamo permesso che politicanti e criminali alimentassero gli stereotipi antimeridionali e gli egoismi del Nord. Gli slogan razzisti dei leghisti alla fine si sono tradotti in una sorta di “maledizione” che si è avverata. La frammentazione, lo sfarinamento, la mutazione dell'Italia non sono soltanto minacciate ma anche quotidianamente praticate, e non solo al Nord. Caduti nelle trappole della Lega, molti immaginano di uscirne inventando leghismi meridionali. Gli abitanti della Calabria hanno infinite ragioni per protestare e sentirsi espropriati, ma hanno, ormai, anche elementi per riflettere, per evitare autoassoluzioni generiche, per non incolpare sempre agli altri, per trovare in casa propria le ragioni della “disunità” d'Italia e anche della “disunità” dei loro paesi. Non convincono gli autori che fanno iniziare la storia del Sud con l'Unità d'Italia, dimenticando vicende più antiche e il Risorgimento meridionale, che è stato tradito e non sopporta altri tradimenti. Scrivere la storia “vera”, complicata, dolorosa del passato non significa creare revisionismi illiberali e autoassolutori che spingono alle divisioni. Sono inquietanti i libri che considerano gli 'ndranghetisti eredi dei briganti. Sentirsi italiani e calabresi, oggi, comporta, forse, essere “antitaliani” e “anticalabresi”: lontani da questa classe politica, da questi gruppi dirigenti, da una borghesia collusa e criminale. Perché amo luoghi e genti, rivendico tutto il diritto di rifiutare la melmosa “calabresità” che dovrebbe mettere assieme carnefici e vittime, gente onesta che vive con difficoltà e faccendieri che prosperano anche sulle catastrofi. L'identità basata su terra, sangue, origine fonda separatismi e “razzismi” e, come vediamo, stragi e tragedie. Su queste norme e regole “identitarie” fondano il loro consenso la criminalità che fa politica e la “politica” diventata criminale. Se continuiamo a distruggere la regione e ad autodistruggerci, non avremo più risorse da consegnare all'Italia che vogliamo. L'appartenenza a un luogo, a una nazione, al mondo non è un destino, non può essere una prigione, è una conquista e un processo senza fine e senza confini. Inseguire il “senso” di essere “calabrese” e “italiano”, di ogni luogo e di “nessun luogo altrove”, con “persuasione”. Vivere i luoghi senza il peso delle origini, senza dover ogni giorno fare dichiarazioni di appartenenza o inventare “identità contro”. 

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